Articles

I once knew a girl

In Specials on 17 novembre 2010 by azzurro

Avrei potuto scrivere questo post ieri sera, quando sono tornata a casa dal teatro. Ma non solo non l’ho fatto perché era tardi, ero stanca e dovevo ancora fare i compiti a casa (sigh, tutti i giorni!).
Non l’ho fatto perché avevo bisogno di metabolizzare quanto avevo visto e ascoltato e rivedere gli appunti buttati giù ieri sera.
Ecco quello che ho scritto al ritorno dallo spettacolo I once knew a girl al Waterside Theatre:

Acqua, lenzuola bianche, fili di cotone e tazze di tè.
Pochi oggetti, simbolici e molti gesti ad accompagnare le parole non di attrici ma di testimoni.
Storie di donne, di forza e sofferenza, legate direttamente o indirettamente all’epoca dei Troubles.
Sul palco, donne cattoliche e protestanti, parenti di vittime ed ex militanti dell’IRA. Alcune hanno sperimentato in prima persona gli orrori degli anni più bui di questo paese, mentre altre li hanno respirati nell’ambiente in cui sono cresciute.
Tutte, nel corso degli anni si sono rese conto che i dolori del passato erano un peso troppo grande per le loro spalle, un peso che aveva bisogno di sciogliersi in lacrime e racconti, entrambi elementi fondamentali (on and off stage) di Once I knew a girl.
Vengono così a galla violenze domestiche, abusi e discriminazioni di vario genere; tutti eventi drammatici ma che all’epoca erano stati taciuti anche perché sembravano poca cosa rispetto ai tragici eventi collettivi.
Raccontare diventa ora un tentativo di ripulire le loro vite, come in maniera ricorrente durante la performance le sei donne strofinano gli oggetti di scena, il pavimento e immergono nell’acqua le loro mani. Un tentativo di riconciliazione con se stesse ma anche con i componenti delle altre comunità, una costruzione di pace che parte proprio dal contatto tra vittime ed ex carnefici, tra fazioni storicamente opposte. Senza dimenticare, ovviamente, il bisogno di giustizia, che a tutt’oggi resta in molti casi ancora insoddisfatto.
Un tentativo, infine, di recuperare i sogni e i desideri di ragazzine che la vita le ha costrette ad abbandonare lungo la strada.

Cosa posso aggiungere oggi, dopo aver dormito sopra le storie che ho sentito, dopo essermi ripresa dall’enorme impatto emotivo che storie come queste, raccontate dai loro diretti protagonisti, inevitabilmente provocano?
Non posso certo riassumere le loro vicende, perché finirei per banalizzarle.
Posso dire che se già leggere testimonianze simili raccolte sulla carta era stato difficile, mi rendo conto ora che quella sensazione era nulla di fronte alla potenza del confronto diretto.
Posso anche dire che il la scelta di queste donne di lavorare insieme per costruire un racconto che fosse per loro guarigione, mi ha fatto tornare il mente il lavoro svolto un anno fa su Beloved, di Toni Morrison.
Anche se in un contesto completamente differente, cioè quello della schiavitù, c’era però anche in quel libro l’idea del racconto che aiuta a liberarsi di pesi sopportati da troppo tempo, c’era la sofferenza femminile e c’erano perfino alcuni dei gesti usati sul palco ieri, come quello di piegare le lenzuola.

Lascia un commento